Il flamenco è un genere musicale che si esprime attraverso il cante, la musica e il baile, tre elementi che dialogano tra loro per restituirci un’espressione artistica, non popolare, di immensa profondità emotiva e complessità ritmica e armonica.
Alla luce degli studi della flamencologia degli ultimi venti anni, si può oggi affermare che il flamenco è, in breve, il risultato della reinterpretazione artistica della musica tradizionale spagnola ed è la diretta conseguenza del decadimento del baile bolero, in voga nei primi quattro decenni del XIX secolo, che, pervaso dall’influenza del balletto francese, perde la sua identità e viene sostituito da una nuova moda, un nuovo gusto che siano più espressamente tipici della cultura spagnola.
Pur non avendo registrazioni audio e tantomeno video dell’aurora di questo nuovo genere, quel che è noto a tutti è che il substrato di cui si alimenta questa musica è dato dall’incontro di molte culture diverse che popolano l’Andalusia lungo i secoli. Seppure molti sottolineino l’importanza dell’arrivo dei gitani nella penisola iberica, al principio del XV secolo, non possiamo prescindere dal considerare le molte altre influenze che hanno giocato un ruolo fondamentale nella cristallizzazione del genere, che, appunto, avviene solamente a metà del XIX secolo.
Ascoltiamo la registrazione del musicologo Faustino Núñez sulle similitudini tra l’Adhan, la chiamata alla preghiera dei musulmani, e alcuni versi di soleares e seguiriyas, palos (stili) che, diversamente dagli altri numerosissimi che popolano il genere, non derivano dal folclore andaluso e il cui aroma ci rimanda alla melodia orientale:
Gli arabi con la loro scuola musicale persiana, il cui laud si può dire che sia l’antecedente diretto della chitarra spagnola, i canti sinagogali ebraici, la musica gregoriana importata dall’impero di oriente dalla liturgia cattolica sono gli affluenti che si vanno a gettare nell’immenso fiume della cultura musicale spagnola che, dopo la scoperta dell’America, vede confluire in sé anche la tradizione della musica nera, che arriva direttamente al porto di Cadice insieme alle ricchezze del nuovo mondo, andando a creare un fondo culturale variegato e ricco come non si è mai dato in nessuna altra cultura del mondo.
Basti pensare
che due palos che figurano come due
giganti nell’intero sistema musicale flamenco, il fandango e il tango, sono
di origine americana: il suffisso –ngo, infatti, viene dalla lingua bantu
dell’Africa sub sahariana e centrale. La musica viaggia quindi dall’Africa
all’America, dall’America all’Europa e dall’Europa di nuovo in America, creando
così una sorta di “spartito del mondo”[1] che
rende il flamenco un’espressione artistica riconosciuta e seguita nell’intero
Pianeta, e quindi universale[2].
Nel 1735 il Diccionario de Autoridades recita chiaramente alla voce fandango: “Baile
introducido por los que han estado en los Reinos de las Indias”.
[1] Giovanni Bietti, Lo spartito del mondo. Breve storia del dialogo tra culture in musica, Laterza, 2018
[1] Dichiarato Patrimonio immateriale dell’Umanità dall’Unesco nel 2010
Con una gestazione che dura quindi quasi quattro secoli, e che beve dalla strabiliante cultura musicale barocca spagnola, fatta di zarabandas, chaconas, canarios, pasacalles, folías, jácaras, dal fandango e la jota del secolo XVIII e dal jaleo e la seguidilla dei primi del XIX, il flamenco comincia a farsi strada nella Bassa Andalusia, proprio a partire da Cadice e dintorni, per arrivare in pochissimi decenni fino a Madrid e a Barcellona e poi all’intera Europa e America.
Ascoltiamo
una Jácaras di Antonio de Santa Cruz del 1680: è già presente il compás di
amalgama tipico del flamenco (6x8 y 3x4):
Per localizzare la culla nella quale il flamenco cessa di essere un’espressione folclorica per convertirsi in un genere artistico riportiamo una mappa redatta da Faustino Núñez sulle teorie del triangolo geografico all’interno del quale sarebbe nato il flamenco, segnalando la nostra inclinazione per quello proposto da Soriano Fuertes:
Tutte le testimonianze che abbiamo ci indicano chiaramente che il flamenco nasce in questa piccola porzione dell’Andalusia meridionale all’interno di un gruppo sociale misto, di bassa estrazione, nel costante dialogo tra etnie e tipi diversi: gitani, moreschi, picari, majos (i più acerrimi oppositori delle mode straniere, che si affacciano in terra spagnola alla fine del XVIII secolo a seguito del cambio di dinastia da Asburgo a Borboni (1714), che scelgono l’agitanamiento, cioè la moda gitanesca, come elemento caratterizzante della propria identità “diversa” contro l’invasione culturale francese), boleros e sottoproletariato urbano di ogni genere, e che, sulla scorta di una tradizione culturale millenaria e con il lascito del baile bolero, nacional o de palillos, tanto in voga nei primi quattro decenni del diciannovesimo secolo, reinventa una nuova musica, che sia autoctona, “castiza” (tradizionale) e, soprattutto, lontana dalla moda francese e dall’Opera italiana che imperavano nella corte spagnola, creando così un genere unico, caratteristico e inaccessibile ritmicamente anche ai più eruditi.
Alla base di questa “invenzione” c’è il folclore: il flamenco, quindi, non crea dal nulla ma reinterpreta la musica popolare, tradizionale, folclorica in una chiave moderna, con l’utilizzo del compás (ritmo) di amalgama, la ritmica acefala (che non dà il primo accento sull’1) e il tono così detto flamenco (o frigio).
A questo proposito sono chiarificatrici le parole di Faustino Núñez, che ci indica come la musica sia come la materia, che non si crea né si distrugge ma si trasforma. Ecco che le seguidillas si trasformano in sevillanas, le jotas in alegrias, le jácaras in bulerías.
Inizialmente il genere prende il nome di cante gitano o gitano-andaluz passando poi, a partire dal 1847 circa, a essere definito flamenco.
È nel quotidiano “El Espectador” del 6 giugno di questo anno che compare per la prima volta il nome di un cantaor accompagnato dall’attributo flamenco:
Sempre del
1847 è il racconto “Un baile en Triana” di Serafín Estébanez Calderón, dove
assistiamo a un recital de cante
capitanato dai primi due cantaores
conosciuti della storia: El Planeta (nato nel 1789) e El Fillo (1820).
A partire da questo momento il flamenco conosce i nomi de La Andonda (1831), probabilmente la prima a cantare por soleá, La Serneta (1837), el Loco Mateo (non si conosce la data di nascita), Curro Durse (1816), Paquirri el Guanter (1836),Tomás el Nitri (1838) prima “Llave de oro del cante” nel 1868, Juan Breva (1844), Enrique el Mellizo (1848). È ora che si forgiano la maggior parte dei cantes flamenchi.
Ma è con il cantaor Silverio Franconetti (1831), di madre andalusa e padre romano, che il flamenco diventa il protagonista del nuovo spazio scenico del momento: il Café Cantante. Silverio apre a Siviglia il suo proprio nella calle Rosario: il flamenco si professionalizza e comincia la sua grande ascesa nei teatri prima e nei festival poi.
Il Café di Silverio rappresenta la cattedra del flamenco dove gli artisti modellano il repertorio e il pubblico va formando il proprio gusto. Tanto successo ha il flamenco in questo nuovo spazio dedicato che nel giro di qualche anno non c’è città che non abbia i suoi propri palcoscenici.
Silverio viene annunciato nel 1864, appena di ritorno dal suo lungo viaggio in America, con un concerto di cante a lo gitano. Il suo repertorio, di cui ancora si conservano alcune versioni, è costituito da seguiriyas, livianas, serranas, tonás.
Silverio rappresenta il caso più eclatante di creatività, elemento che percorre tutta la seconda metà del secolo XIX e che nel secolo successivo verrà sostituito dalla reinterpretazione del repertorio e dalla creazione degli ultimi palos.
È l’epoca delle bailaoras Rosario Monje la Mejorana (1862), la Macarrona (1870) e la Malena (1877), precedute dalle prime due protagoniste del baile por soleá: Petra Cámara (1827) ballando a Siviglia nel 1853 e Josefa Vargas (1828) a Granada nel 1854.
Mentre Silverio fa la storia, nel mondo del cante nascono i primi astri del genere, di cui finalmente abbiamo le prime registrazioni audio: Antonio Chacón (1869), Manuel Torre (1878), Pepe de la Matrona (1887), La Niña de lo Peines (1890) la prima a registrare una bulería nel 1909 e che trionferà nella successiva epoca dell’Opera flamenca, Manuel Vallejo (1891) seconda “Llave de oro del cante” nel 1925, Tomás Pavón (1893). Per la flamencologia tradizionale questa è la così detta “Edad de Oro”.
Chacón, un payo (non gitano) soprannominato El Papa flamenco, e Torres, gitano, rappresentano i giganti a cavallo tra i due secoli, con la creazione e la cristallizzazione di nuovi stili, in particolare malagueñas, granaínas, cartageneras, caracoles, mirabrás, soleá, tonás, polos, cañas e seguiriya il primo, guajiras, soleá, campanilleros e tarantos il secondo.
Il mondo della chitarra viene illuminato dall’astro di Ramón Montoya (1880): inizia con lui l’era della chitarra da concerto. Montoya, che accompagna Chacón durante quindici anni per passare poi a lavorare con Pepe Marchena, ha il merito, oltre ad avere la più assoluta capacità di dominare tutti i cantes, di avere sviluppato i nuovi toni di rondeña e di minera non più per l’accompagnamento del cante ma appositamente per la chitarra solista.
Nel baile sono gli anni del Ballet Flamenco, interpretato da stelle come Antonia Mercé La Argentina (1890), Pastora Imperio (1889), Encarnación López La Argentinita (1898) e sua sorella Pilar López (1912). E non si può prescindere dal nominare Vicente Escudero (1888), bailaor dalla personalità unica e assoluto innovatore del genere (è sua la prima coreografia di seguiriya della storia del flamenco).
Nascono nei primi anni del XX secolo altri tre giganti del cante flamenco: sono i cantaores Pepe Marchena (1903) creatore del cante por colombiana e il primo a registrare la Soleá de Alcalá de Joaquín el de la Paula (1875), Manolo Caracol (1909) vincitore del Concurso de Cante Jondo (1922), insieme a Diego Bermúdez el Tenazas, organizzato da Federico García Lorca e Manuel de Falla, e Antonio Mairena (1909), oltre a Rafael Romero El Gallina (1910), Juan Valderrrama (1916) il re del fandango, e Porrina de Badajoz (1924), capostipite del cante dell’Estremadura (jaleos e tangos extremeños), tra gli altri: siamo di fronte a quella che per Faustino Núñez è la vera Edad de Oro del flamenco.
Merita una menzione a parte l’ortodosso Antonio Mairena, terza “Llave de oro del cante” nel 1962, per essere colui che ha recuperato e registrato moltissimi cantes di tutta la geografia flamenca e che al contrario, probabilmente, sarebbero scomparsi, oltre ad avere scritto con Ricardo Molina il libro Mundos y formas del cante flamenco (1963) essendo così uno dei primi ad inaugurare la flamencologia moderna.
Nella chitarra da concerto trionfano Niño Ricardo (1904) e Sabicas (1912) mentre nell’accompagnamento al baile e al cante spiccano Manolo de Huelva (1892), Melchor de Marchena (1907), Diego del Gastor (1908) e Luis Maravilla (1914).
Quando i Cafés vengono chiusi, nel 1908, si inaugura l’epoca così detta della Opera Flamenca: gli spettacoli si trasferiscono nei teatri e nelle arene per compiacere un pubblico sempre più numeroso e, come no, con un gusto diverso da quello dell’epoca precedente. I fandangos, le guajiras e le colombianas sono più appetibili a questa nuova platea rispetto alle più antiche soleares e seguiriyas, per questo motivo l’epoca dell’Opera flamenca viene spesso considerata responsabile dell’adulterazione del genere.
Nel baile incontriamo due figure rivoluzionarie che segneranno una nuova epoca: parliamo di Carmen Amaya (1913), cha cambia l’estetica del flamenco con l’introduzione della ritmica dei piedi nel baile de mujer e la creazione del baile por tarantos, e Antonio el Bailarín, creatore del martinete ballato, che apprezziamo a seguire:
Siamo giunti agli anni ‘50 del secolo scorso, l’epoca della rivalorizzazione del flamenco che vive una spettacolare rinascita dopo i terribili anni della guerra civile (1936-39).
I principali avvenimenti di questo periodo sono la nascita dei tablaos e delle peñas, l’uscita del film “Duende y misterio del flamenco” di Edgar Nelville (1952), la pubblicazione della “Antología del cante flamenco” di Hispavox (1954), diretta dal chitarrista jerezano Perico el del Lunar e la prima di una lunga serie, a Cordoba si inaugura il “Primer Concurso Nacional del Arte Flamenco” (1956) che vince Antonio Fernández Díaz Fosforito, quinta “Llave de oro del cante” (2005) dopo la quarta conferita postuma alla morte a Camarón (2000), e nello stesso 1956 la pubblicazione del libro Flamencología di Anselmo González Climent, che inaugura la flamencologia moderna, e per finire nel 1958 l’apertura della prima Cattedra di Flamencologia a Jerez.
I principali rappresentanti del cante sono La Perla de Cádiz (1924), Chano Lobato (1927), Fernanda (1923) e Bernarda de Utrera (1927), el Chocolate (1930), Fosforito (1932), Agujetas (1933), La Paquera de Jerez (1934), Juan Peña el Lebrijano (1941), José Menese (1942), Enrique Morente (1942), Carmen Linares (1951), oltre, naturalmente, a Camarón de la Isla (1950) l’autentico spartiacque del cante flamenco, che, mai dimenticando la tradizione, ha traghettato il cante all’epoca contemporanea e in molti si domandano se ci possa mai essere un artista più superlativo di lui.
Nel baile apprezziamo Farruco (1935), Matilde Coral (1935), Antonio Gades (1936), Mario Maya (1937), El Güito (1942), Cristina Hoyos (1946), Manuela Carrasco (1958). Per terminare il cammino dell’evoluzione del baile, dopo aver visto Vicente Escudero e Antonio el Bailarín, vi propongo a seguire una soleá del Farruco:
Nel mondo della chitarra oltre a Victor Monje Serranito (1942) e Manolo Salucar (1943), nasce il genio Paco De Lucía (1947): non solo per la chitarra ma per tutto il flamenco nulla sarà mai più uguale a prima.
Il resto non è più storia ma attualità: una costellazione di artisti vede il flamenco attuale vivere di ottima salute, grazie anche a festival come la Biennale di Siviglia e il Festival Flamenco di Jerez de la Frontera, destinazioni che attraggono gli affezionati di tutto il mondo.
Non si può che augurare a chiunque di assistere a uno di questi spettacoli per vivere ad occhi aperti il sogno di un’arte con decenni di storia alle spalle e molti altri di fronte, come una musica ormai diventata “classica”.
Carla Paolillo copyright 2021